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io sono gomito

gomito

C’era una volta, incastonato tra due lande rosee irte di peli, un promontorio dolcemente scosceso, arido e rugoso, meglio noto come gomito.  

Le vite come le mie, da gomito appunto, potrebbero sembrare ingrate: il più delle volte nascosti, irraggiungibili dalle labbra e dagli occhi di chi ci possiede, siamo spesso associati a espressioni sgradevoli o fastidiose tipo “ti è venuto il gomito del tennista”, oppure, “per fare questo lavoro ci vuole un bel po’ di olio di gomito”, o ancora, “alzare il gomito” e “farsi avanti coi gomiti”.  

Eppure, io mi ritengo più importante di quanto si pensi: reggo quasi da solo, ad esempio, l’intera struttura di quell’articolato meccanismo di leve che sono braccia e mani. Pensate ad una vita senza gomiti. Vi sembra possibile? Niente più appoggi oziosi su tavoli e ringhiere. Niente più scatenati balli del quaquà. Le vostre articolazioni superiori sarebbero caratterizzate da una fastidiosa rigidità che vi impedirebbe, ad esempio, di portare il cibo alla bocca. Gli sbadigli si trasformerebbero in alitate incontrollate, tanto oscene quanto i peti. Se già grattarsi la schiena è complicato, senza noi gomiti diventerebbe un atto di contorsionismo degno del miglior talento circense.  

Eppure la mia “lei”, la mente pensante a me associata, pare essersi accorta della mia importanza solo in un fatidico episodio della nostra vita insieme. Fino a quel momento, infatti, ero stato un’estremità ignorata, da guardare raramente allo specchio, da grattare ogni tanto con ferocia. Solo di rado ricadevo al centro di cure distrattamente amorevoli. Succedeva dopo la doccia, quando all’improvviso venivo cosparso di una sostanza untuosa che mi rendeva estremamente bello, liscio, luminoso e mi liberava da quelle fastidiose screpolature che mi accompagnano ogni giorno.  

Era, dunque, un giorno torrido d’estate. Eccoci su uno degli autobus più stracolmi della città. La mia lei è uno di quegli animi timidi all’inverosimile, una di quelle ragazze che parlano con un filo di voce e che si infuocano se gli si rivolge una parola più accorata, uno sguardo più sagace. Già, quindi, salire su quell’autobus era stata un’impresa. Spintonati, umiliati e offesi, eravamo riusciti a sgusciare tra la calca di altri corpi determinati a non perdere altro tempo. Una volta dentro a quell’inferno a quattro ruote, era stato il naso ad avere per primo la meglio, travolto da una sfilza di tanfi insopportabili. Poi, erano entrate in scena la fronte, il labbro superiore e le ascelle, quando a metà corsa, ecco rompersi il condizionatore. Infine, a catturare tutta l’attenzione della nostra signora, è arrivato il deretano. Era tanto quieto, lui, nel suo morbido immobilismo. Come sempre se ne stava lì satollo e pasciuto, tronfio e contento, ignaro di tutto, se non fosse stato per quella viscida mano pronta a stringerlo e a palparlo. Nessuno degli altri di noi se lo sarebbe mai aspettato. Sapevamo già come si sarebbe comportato il re cervello sempre pronto a mandare i suoi impulsi pieni di paura e ritrosia, sapevamo che avrebbe lasciato stare quella mano lì, indisturbata, inondando frattanto le guance di fiumi di lava imbarazzata. Ad un tratto, però, un altro impulso è subentrato. Ed ecco, sono entrato in scena io. Cosa c’è di meglio in casi come questo di un deciso e improvviso colpo di gomito diretto alle parti basse del vile palpatore? Qualcosa per tutti noi quel giorno era cambiato.  

Silvana Calcagno

 

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