Silvana Calcagno
LEGGERE LE MANI
Un bar di periferia. È qui che si va a rifugiare per trovare l’ispirazione la poetessa più illustre della Polonia. Un’insegna illuminata a metà, AR DEL ORSO, confonde l’avventore casuale, orso? Corso? Chi per caso si trova ad osservarla dalle vetrate opache e sporche di quel bar del corso fantoccio vede una vecchia, minuta e composta, praticamente immobile, se non fosse per la mano destra che si alza insieme al braccio per portare alla bocca una tazza via via sempre meno fumante di tè al mirtillo, mentre l’altra mano, la sinistra, ogni tanto sale al collo per sgranare le palle gialle della collana che le scivola fino al petto, e per le pupille acquose e nere che si muovono incessantemente perlustrando tutto, protette da un paio di occhiali con le lenti leggermente oscurate per schermare la luce più forte, tondi e ampi per cercare di coprire la fronte maculata di lentiggini giganti e per far sembrare più corto il naso aquilino che le conferisce un’aria da rapace intelligente, mentre fa ombra alle labbra strette e sottili che si aprono e si chiudono lievemente senza pronunciare suono.
Gli occhi dell’osservatore occasionale, però, tornano subito, senza riuscire a staccarsene, alle mani, una vecchina così minuta e composta con mani così grandi, le nocche sporgenti, i dorsi ricoperti dalle stesse lentiggini giganti della fronte e immensi crateri di rughe che attraversano quelle mani che non sembrano essere di scrittrice dedita all’ozio, ma di contadina, se non fosse per le dita affusolate ed eleganti che si uniscono al palmo spazioso, anch’esso attraversato da solchi che sembrano rami di alberi in inverno, da biforcazioni che ricordano anse di fiumi mai navigati. Il viso pare il culetto di un bambino a confronto con le mani increspate dalle onde. E non è un fatto dovuto all’età.
Quelle stesse mani un giorno le aveva mostrate ad un chiromante e se il dorso era liscio e bianco, il palmo era lo stesso ingorgo di strade che si incontrano, si dividono, si accavallano, ogni tanto interrotte da macchie di inchiostro blu. Il chiromante era rimasto a lungo col naso appiccicato e gli occhi incollati alle mani della donna, la linea della vita lunga e affusolata, faceva tutto il giro del palmo quasi a ricongiungersi col dorso: vita lunga, intensa, attraversata da diramazioni come artigli, unghiate di sofferenza, gli occhi a fessura di un militare nazista, croci piccole delle tombe dei morti di guerra, croci grandi delle tombe dei morti più cari, e finiva pulita, serena, mentre all’altro capo si intersecava con la linea della testa, una curva profonda e pendente verso il basso, creativa, decisa, i pensieri sono chiari ma originali, i successi tardivi ma grandissimi, si sfiorava quasi con la linea del cuore, lunga, appassionata, tanti amori intellettuali e carnali, passioni, poi delle interruzioni, traumi, un matrimonio finito, un uomo importante che muore – per modo di dire o muore proprio? – un puzzle in quel cuore da esprimere e soprattutto da decifrare perché attraversato in verticale da una linea del destino così lunga da intersecare le altre 2: cuore, testa e vita, così profonda e marcata da sembrare una ferita. “Non sarai una figlia del tuo secolo”. Le aveva detto solo questo, dopo un lungo silenzio, il chiromante e poi era scomparso.
In un bar della periferia di Cracovia siede minuta e composta Wislawa Szymborska, ha quasi novant’anni, il suo corpo sembra un foglio di carta stropicciato, ha vinto il Nobel per la Letteratura 16 anni fa, ma da sempre osserva attraverso le vetrate opache e sporche di un vecchio caffè, il mondo incantevole e spietato del quale non si sente parte, in cerca delle parole più giuste per descriverlo.
Silvana Calcagno
Pubblicato sulla rivista MAGO' della Scuola di Scrittura Omero - ott. 2015
Illustrazione di Luigi Annibaldi