Silvana Calcagno
UN'ESTATE CON SABRINA
Non la vedevo da cinque anni la cugina di Milano. Quando era arrivata, quell’estate, senza gli zii, con il suo kit di valigie alla moda ero rimasto come quando l’Inter di Ronaldo aveva perso lo scudetto a tre partite dalla fine del campionato: a bocca aperta. Era diventata biondissima, più alta di me di una spanna, indossava minigonna e maglietta ombelicale, bracciali rumorosi e scarpe con la zeppa. Eravamo coetanei, ma io a 14 anni non ero ancora spicato. Con evidente richiamo alle spighe del grano, si dice così da noi quando si vuole indicare quella mostruosa crescita adolescenziale che nel giro di pochi mesi trasforma voce, ossa e volto dei maschi.
All’inizio di quell’estate io ero ancora un bambino, amavo il calcio, Dragon Ball e vestivo come un selvaggio, mischiando impunemente forme e colori, taglie e proporzioni. All’inizio di quell’estate persino il nome di mia cugina mi suonava esotico, Sabrina. Le mie compagne di scuola avevano tutti nomi antichi, Maria, Concetta, Lucia e indossavano per lo più magliette con stampe coccolose, tipo micetti che si leccano o Minnie che danza con Topolino.
- Ci andiamo a fare un ape? – Aveva esordito così quell’alieno mio consanguineo mentre brillava di fascino contemporaneo. Io l’avevo guardata dal basso in alto con la bocca ancora più spalancata e le avevo riso in faccia. In breve, ci odiavamo.
Numero uno: non la capivo quando parlava.
Numero due: la dovevo portare sempre con me, “perché è sola” diceva la mamma.
Numero tre: tutti adoravano lei e avevano cominciato a trattare me come un idiota.
Sabrina aveva 14 anni, ma già fumava e beveva come un camionista. Ben presto nella mia comitiva l’avevano soprannominata “Iveco”. Le femmine la guardavano come una materializzazione onirica di Kelly di Beverly Hills 90210, si facevano dare consigli di stile e un pomeriggio le avevamo beccate dietro le giostre a baciarsi i dorsi delle mani per impratichirsi nella sacra e misteriosa attività del limonare. Sabrina frattanto si allenava con ragazzi in bocca e ossa che la trattavano come una materializzazione fisica di ogni loro sogno erotico. Lei li baciava soltanto, però, e poi ogni tanto la vedevamo salire in macchina con quelli molto più grandi di noi che conoscevamo solo per fama. Ad ogni modo, Sabrina preferiva decisamente la compagnia di noi maschi e amava insegnarci cose da vero uomo, ad esempio come sputare cerchi perfetti di fumo, come rullare una canna, come tornare a casa ubriachi senza farci scoprire. Tutti ci fingevamo esperti ragazzacci scapestrati di città, Iveco faceva finta di crederci e con comprensione trasmetteva il suo sapere. Era una strafiga per tutti, tranne che per me. Qualche anno dopo l’avevo rivista e avevo realizzato che in realtà era una ragazza problematica, ma in quei 3 mesi nessun sentimento di indulgenza mi aveva sfiorato. Era la mia peggior nemica.
Anche perché, per quanto mi riguardava, la cosa più alcolica che avevo bevuto fino a quel momento in vita mia erano le pesche col vino. Avevo provato il fumo passivo della pipa di mio papà, e di lingue, denti e saliva non ne capivo nulla. Per mia cugina ero il trastullo perfetto da torturare. Sacrificarne uno per educarne cento, questo doveva essere il suo motto.
- Uè nano, ce l’hai una siga? – amava rivolgersi a me chiamandomi “nano”, “gnomo”, “nanerottolo”, “pigmeo”, “rachitico”, “folletto”, “Memole”, e così via. Per non sfigurare avevo iniziato a fumare. Dal tabaccaio ero stato attratto da quelle sigarette sottili e lunghe che sembrano grissini e le avevo comprate.
- Uè gnomo, sei anche finocchio? Che cazzo di sigarette fumi? – mi aveva detto quella stronza quando se n’era accorta. Che ne sapevo io che erano roba da femmine.
Una sera, poi, in spiaggia, ci eravamo messi a suonare la chitarra e Sabrina aveva invitato due di quelli più grandi, portatori sani di marjuana. A giro ci passavamo quelle sigarette grosse e tozze che sapevano di carne alla brace e ad ogni tiro mi pareva di morire soffocato. Ad un certo punto – Uè cugino pigmeo, mi aveva detto, - ti sfido. Avevo riso fingendo sicurezza estrema mentre sentivo il sangue solidificarsi piano piano nelle vene.
- Qui in terronia lo conoscete il beer bong?
- Certo – avevo detto io senza avere la più pallida idea di cosa stesse parlando.
Lei sapeva che stavo mentendo, ne ero certo, e con un sorriso enigmatico aveva estratto dalla borsa un tubo di gomma di quelli che si usano per annaffiare le piante e un imbuto.
- Giochiamo allora. Prendimi una birra da 66.
Stordito dal fumo e con la punta delle orecchie in fiamme, mi ero alzato come un automa e le avevo preso la birra, mentre gli altri ridevano.
- Dà qua – mi aveva detto uno dei suoi amici maggiorenni strappandomi la birra di mano.
Sabrina frattanto si era inginocchiata, aveva unito l’imbuto al tubo di gomma e se l’era messo in bocca. Era sceso il silenzio e io cercavo di rimanere concentrato e calmo, ma il mio cervello vagava stordito. Dovevo avere lo sguardo di un ebete. Il maggiorenne stappò la bottiglia coi denti, prese l’altro capo del tubo e tenendoselo davanti agli occhi ci versò dentro tutto il contenuto della bottiglia. Sabrina, all’altro capo del marchingegno, ingollava il liquido come un tacchino maestoso e terribile, senza fermarsi mai, senza respirare. Il processo era durato in tutto una decina di secondi che a me erano parsi una decina di secoli. Sabrina si era alzata, si era asciugata la bocca con la mano e aveva detto – Ora fai tu, nano.
Senza avere neanche il tempo di pensare, protestare, scappare, mi ero trovato in ginocchio anche io, con l’imbuto in bocca e Sabrina all’altro capo del tubo pronta a far scivolare il liquido mortale. – Devi berla tutta senza interromperti, capito? – E cominciò a versare la birra nell’imbuto. Bevevo e ogni sorso lo sentivo bruciare nella gola e poi gonfiare la pancia. A metà bottiglia mi mancava il fiato e non riuscivo più a ingoiare. Riempii le guance di birra ma quel liquido pieno di bollicine continuava a venire giù, a solleticarmi il naso, a farmi lacrimare gli occhi e alla fine mi esplose in bocca facendomi sfuggire il tubo di gomma dalle mani. Un flusso di birra mi investì, una cascata del Niagara di frizzantezza spalmata sulla faccia e sui vestiti. Mi alzai in piedi di botto e a quel punto lo sentii, era come un bimbo dentro di me che risaliva per l’esofago saltellando e si faceva strada verso la gola: un rutto mostruoso. Feci il tentativo di ingabbiarlo in bocca, ma era più forte: scalpitò e uscì fuori portando con sé una scia di birra schiumosa, mista a succhi gastrici. Mi ero vomitato addosso.
Quella sera per me era finita lì. Accovacciato dietro una barca avevo continuato a vomitare a intermittenza mentre le risa e le urla degli altri mi raggiungevano attutite, finché il mio amico Gianni, impietosito, non mi aveva accompagnato a casa. Mi ero steso sul letto moribondo e mentre dentro al suo poster Ronaldo ballava la samba al ritmo dei miei giramenti di testa, l’avevo sentita tornare. Lo sapevo già a quel tempo che non si picchiano le femmine, ma ero fuori di me e volevo fargliela pagare. Si stava cambiando in bagno, era in canotta e slip, e io mi ero scagliato contro di lei barcollante.
- Brutta stronza – le avevo detto con la maglia ancora incrostata di vomito e birra.
Volevo riempirla di testate in pancia vista la differenza di statura. L’avrò puntata due, tre volte come un toro davanti a un panno rosso, ma lei era riuscita a schivarmi sempre, finché non ero caduto faccia a terra.
- Dai nanerottolo, vai a dormire. L’ho fatto per il tuo bene. Dovresti ringraziarmi – mi ha detto scavalcando il mio cadavere e mi ha lasciato lì in bagno a rantolare.
L’indomani mio padre mi aveva svegliato punzecchiandomi con la spazzola. Mi ero addormentato sul pavimento con la bava alla bocca. Non aveva detto niente, mi aveva solo sfilato le chiavi di casa dalla tasca dei jeans e per una settimana non avevo più avuto il permesso di uscire. Avevo cominciato a evitare mia cugina Iveco e a non rivolgerle più la parola. L’ultimo giorno di punizione era anche il suo ultimo giorno a casa nostra. L’avevo trovata a mezzogiorno, pronta a partire con tutte le valigie raggruppate sull’uscio, mentre la macchina di mio padre già rombava sul vialetto per portarla all’aeroporto. Io avevo intenzione di ignorarla come sempre e le passai davanti a testa bassa. Lei mi afferrò per il braccio, io istintivamente mi coprii il viso con la mano pensando volesse picchiarmi. Quella invece si avvicinò e mi schioccò un bacio in bocca con la lingua. Sentii il suo sapore di fumo e burro di cacao alla ciliegia, ma la lingua non la mossi neanche un po’.
- Ciao nano, mi aveva detto. Ed era sparita, inghiottita dalla macchina di papà.
Quella sera, uscii a riveder le stelle. Ero diventato una leggenda tra gli amici della comitiva: ero stato il primo a vomitare per eccesso di alcool e a provare l’eccitante esperienza del beer bong. Passammo una serata tranquilla in piazzetta, niente alcool, niente fumo, solo le solite chiacchiere su Ronaldo, il calcio, le tette di Maria che erano cresciute come meloni. Quando rientrai mio padre mi aspettava sveglio davanti alla tv. Gli diedi una pacca sulle spalle e me ne andai in bagno a lavare i denti. Mi guardai allo specchio e li vidi: dei piccolissimi, duri, peletti neri si erano installati sul mio mento e sul labbro superiore. Ero spicato.
Silvana Calcagno